sabato 27 dicembre 2014

La solitudine




Aldo Carotenuto, articolo pubblicato su “Il Mattino” di Napoli, all’interno della rubrica “Eros e Pathos”. Non è stato possibile rinvenire la data esatta di pubblicazione.

L’uomo ha sempre cercato di capire quali siano le motivazioni sottese all’impossibilità di arginare il dilagare della sofferenza dentro alla sua anima. Il dolore umano costituisce una realtà poliedrica, di cui la solitudine rappresenta soltanto una delle molte facce. Del senso di solitudine ognuno di noi ha una propria opinione, tuttavia non se ne può avere una conoscenza esauriente fin quando non sperimentiamo noi stessi all’interno delle relazioni interpersonali.

Il vero problema è dato dal fatto che ogni volta che ci troviamo con gli altri, tra la gente, alle prese con quel genere di rapporti che potremmo definire “convenzionali”, ne avvertiamo in maniera diretta e dolorosa l’inconsistenza. 
I rapporti convenzionali sono, sia per caratteristiche sia per finalità, del tutto opposti alle relazioni che, invece, potremmo definire “autentiche”. 
Le circostanze della quotidianità, ci costringono a vivere rapporti falsi, fondati sulla menzogna, sulla competizione, su mortificanti bilanci tra vantaggi e svantaggi personali. Comprendiamo quindi che, stando così le cose, non soltanto si corre il rischio di non sentirsi mai preparati a vivere rapporti autentici ma, soprattutto, non lo si è realmente.
Ecco allora subentrare la sofferenza, un dolore sottile e persistente che la nostra anima prova sentendosi privata del suo principale nutrimento. 
Il rapporto autentico, fondato su una comunicazione sincera, dettata dai sentimenti, difficilmente riesce a trovare un territorio nel quale affondare le proprie radici e così, nella maggioranza dei casi, cede il passo alle relazioni convenzionali, prive di qualunque potere espressivo. Siamo dunque impreparati a vivere rapporti autentici, stentiamo a riconoscerli e ad aprirci ad essi con fiducia.

Il senso di solitudine è una delle caratteristiche essenziali della condizione umana. Sappiamo bene cosa esso sia perché tutti, almeno una volta nella vita, ne abbiamo fatto esperienza diretta. 
L’isolamento umano, inteso come ritiro in noi stessi, raggiunge talvolta una soglia oltre la quale le parole perdono significato e risultano inutilizzabili per descrivere ciò che si prova. 
Sentirsi soli in mezzo alla folla, ad esempio, è un’esperienza sconcertante ma più frequente di quanto si possa pensare. 

Da sempre l’uomo si interroga per cercare di comprendere quali siano le ragioni sottese all’impossibilità di avvertire la presenza degli altri e di beneficiarne.
Il dilagare della solitudine viene però determinato, più che dal non riuscire a percepire gli altri, dalla sensazione di non potere condividere le proprie emozioni, il proprio incomunicabile vissuto di sofferenza. La nostra condizione di disagio interno, talvolta è così estremizzata da impedirci di ricevere aiuto e sostegno dal contatto con gli altri. Lo sconforto interiore che in genere si accompagna alla solitudine, diviene così uno stimolo, un impulso irrefrenabile che ci spinge ad interrogarci in merito a noi stessi e alle persone che ci circondano.
Le considerazioni cui giungiamo sono spesso molto amare, soprattutto, quando riflettiamo sull’inconsistenza dei rapporti convenzionali. 
Accade così che le esperienze ci rendano sempre più diffidenti, sfiduciati rispetto alla possibilità di vivere rapporti autentici, tali da non farci più sentire soli. 
L’area degli affetti è la più difficile da vivere perché su essa riversiamo non solo tutte le nostre aspettative ma, soprattutto, le paure più intime, in primo luogo quella di ritrovarci soli con i nostri sogni infranti. 
Così, commettendo un grave errore, permettiamo che la nostra anima diventi refrattaria alle emozioni, impermeabile ai sentimenti e a quelle meravigliose illusioni che solo la dimensione amorosa può alimentare.

Fortunatamente, però, nell’esistenza di ogni individuo si presenta, prima o poi, un momento di grande rilevanza psicologica, in cui si giunge a comprendere quanto siano fondamentali i rapporti per la nostra sopravvivenza. 
Si esperisce una sorta di “risveglio” per cui, all’improvviso, i nostri occhi si spalancano permettendoci di vedere gli altri, le persone che ci circondano, sotto una luce completamente diversa. 
E’ questo un momento fondamentale, in cui si ricomincia a credere e a guardare al futuro con ottimismo.
Illuminato dalla fiducia, il volto della persona amata risplende infondendo in noi che lo ammiriamo la speranza di non essere mai più soli. 
Sebbene la solitudine e la sofferenza sembrino essere connaturate all’uomo, esiste comunque la possibilità di condividere le nostre inquietudini con un’altra persona, capace di comprenderci perché tormentata dallo stesso tipo di disagio interiore. 

L’amore rende possibile anche questo straordinario prodigio: la sconfitta della solitudine.

domenica 21 dicembre 2014

Simona Molinari - Lettera


Lettera

No non starò qui a dire cosa è andato storto,
anche perché io forse non l'ho mai capito,
ma fuggo via di spalle con le rose in mano
Correndo sopra le pozzanghere di vino.
No no, non potrei odiarti
non potrei davvero,
ma senza dire una parola ti allontano.
Ora ti perdo ed è davvero così strano.
Ora mi perdo,
ora mi accorgo che...ti amo!

E sia...
sia la notte, sia il giorno
sia senza ritorno...
Vai via, non amarmi mai più
non ferirmi di più...
E sia...
e non dire che mi ami,
non dirmi rimani
vai via, non amarmi mai più
non ferirmi di più...
E non dimentico di noi neanche un momento,
dei nostri viaggi e della nostra intimità,
dei gorni chiusi in una stanza senza tempo,
dei giorni accesi dalla mia felicità.
E non importa questa volta se io perdo,
perché in amore non si vince quasi mai.
Ti lascio tra le braccia di una nuova vita
che è più decisa e ha più carattere di me

Leave me,
with the tears from your eyes
and don't say goodbay
just leave me.
I hate that it's true but i'm not good for you,
Leave me
take your hands out of mine and don't waste any time
Just leave me
let tonight fade to black and never look back

Sarò nei tuoi passi
ma ti lascio andare
perché questo amore
non possa finire!

Mi scrisse e mi lasciò quel foglio sopra il letto,
lì dove poco prima lo tenevo stretto.
E non fu facile accettare mai quel gesto
Più della sua amò la mia felicità!
Ed io chiusi la porta e mi presi il mio silenzio,
a respirare quella nuova libertà che
tanto illude e tanto può apparire cara
ma solo quando, in fin dei conti, non si ha

venerdì 19 dicembre 2014

Lettera di Frida Kahlo a Diego Rivera - Città del Messico 12 settembre 1939. Mai spedita.




Da Frida a Diego. Città del Messico 12 settembre 1939

"La mia notte mi strema. Sa bene che mi manchi e tutta la sua oscurità non basta a nascondere quest’evidenza che brilla come una lama nel buio, la mia notte vorrebbe avere ali per volare fino a te, avvolgerti nel sonno e ricondurti a me. Nel sonno mi sentiresti vicina e senza risvegliarti le tue braccia mi stringerebbero. La mia notte non porta consiglio. La mia notte pensa a te, come un sogno a occhi aperti. La mia notte si intristisce e si perde. La mia notte accentua la mia solitudine, tutte le solitudini. Il suo silenzio ascolta solo le mie voci interiori. La mia notte è lunga, lunga, lunga. La mia notte avrebbe paura che il giorno non appaia più ma allo stesso tempo la mia notte teme la sua apparizione, perché il giorno è un giorno artificiale in cui ogni ora vale il doppio e senza di te non è più veramente vissuta. La mia notte si chiede se il mio giorno somiglia alla mia notte. Cosa che spiegherebbe la mia notte, perché tempo anche il giorno. La mia notte ha voglia di vestirmi e di spingermi fuori per andare a cercare il mio uomo. Ma la mia notte sa che ciò che chiamano follia, da ogni ordine, semina-disordine, è proibito. La mia notte si chiede cosa non sia proibito. Non è proibito fare corpo con lei, questo, lo sa, ma si irrita nel vedere una carne fare corpo con lei sul filo della disperazione. Una carne non è fatta per sposare il nulla. La mia notte ti ama fin nel suo intimo, e risuona anche del mio. La mia notte si nutre di echi immaginari. Essa, può farlo. Io, fallisco. La mia notte mi osserva. Il suo sguardo è liscio e si insinua in ogni cosa. La mia notte vorrebbe che tu fossi qui per insinuarsi anche dentro di te con tenerezza. La mia notte ti aspetta. Il mio corpo ti attende. La mia notte vorrebbe che tu riposassi nell’incavo della mia spalla e che io riposassi nell’incavo della tua. La mia notte vorrebbe essere spettatrice del mio e del tuo godimento, vederti e vedermi fremere di piacere. La mia notte vorrebbe vedere i nostri sguardi e avere i nostri sguardi pieni di desiderio. La mia notte vorrebbe tenere fra le mani ogni spasmo. La mia notte diventerebbe dolce. La mia notte si lamenta in silenzio della sua solitudine al ricordo di te. La mia notte è lunga, lunga, lunga. Perde la testa ma non può allontanare la tua immagine da me, non può dissipare il mio desiderio. Sta morendo perché non sei qui e mi uccide. La mia notte ti cerca continuamente. Il mio corpo non riesce a concepire che qualche strada o una qualsiasi geografia ci separi. Il mio corpo diventa pazzo di dolore di non poter riconoscere nel cuore della notte la tua figura o la tua ombra. Il mio corpo vorrebbe abbracciarti nel sonno. Il mio corpo vorrebbe dormire in piena notte e in quelle tenebre essere risvegliato al tuo abbraccio. La mia notte urla e si strappa i veli, la mia notte si scontra con il proprio silenzio, ma il tuo corpo resta introvabile. Mi manchi tanto, tanto. Le tue parole. Il tuo colore. Fra poco si leverà il sole."

Lettera di Frida Kahlo a Diego Rivera - Città del Messico 12 settembre 1939. Mai spedita.

domenica 16 novembre 2014

Una piccola libreria a Parigi (Nina George)




Samy mi ha regalato l'ultima delle sue perle di saggezza. La mia piccola grande amica. Stranamente non ha tuonato, di solito le piace molto, mi ha abbracciato mentre ero seduto a guardare il mare e a contare i colori. Poi ha sussurrato pianissimo: "Lo sai che tra la fine e il nuovo inizio c'è un mondo di mezzo? E' il tempo ferito, Jean Perdu. E' una palude dove si raccolgono sogni, paure e intenzioni perdute. I passi in questo tempo si fanno più pesanti. Non sottovalutare questa stazione di passaggio tra la fine e il nuovo inizio, Jeanno. Datti tempo. A volte le soglie sono così grandi che non si possono superare con un passo solo".

sabato 11 ottobre 2014

Julian Barnes - Il senso di una fine




Con quale frequenza raccontiamo la storia della nostra vita?
Aggiustandola, migliorandola, applicandovi tagli strategici? 
E più avanti si va negli anni, meno corriamo il rischio che qualcuno intorno a noi ci possa contestare quella versione dei fatti, ricordandoci che la nostra vita non è la nostra vita, ma solo la storia che ne abbiamo raccontato.
Agli altri ma soprattutto a noi stessi.



domenica 21 settembre 2014

Lo Zahir (P.Coelho) - Frasi



La sofferenza nasce quando ci aspettiamo che gli altri ci amino nel modo che immaginiamo, e non nella maniera in cui l'amore deve manifestarsi - libero, incontrollato, pronto a guidarci con la sua forza e a impedirci di fermarci.



Ogni uomo e ogni donna sono in connessione con l'energia che molti chiamano "amore", ma che in realtà è la materia prima con cui è stato creato l'universo. Questa energia non può essere manipolata, è essa che ci guida dolcemente, è in essa che si concentra tutto il nostro apprendistato per la vita. Se tentiamo di indirizzarla verso obiettivi scelti da noi, finiamo in balia della disperazione, della frustrazione, dell'illusione, perchè essa è libera e selvaggia.

Parlammo di tutto, tranne che d'amore, perchè amavamo senza aver bisogno di parlare.

Nell'amore si devono costruire i ricordi; solo così gli attimi diventano minuti, i minuti ore, le ore giorni, i giorni vita.

Non mi pento dei momenti in cui ho sofferto, porto su di me le cicatrici come se fossero medaglie, so che la libertà ha un prezzo alto, alto quanto quello della schiavitù. L'unica differenza è che si paga con piacere, e con un sorriso - anche quando quel sorriso è bagnato dalle lacrime.


Lo Zahir è un pensiero che all'inizio ti sfiora appena e finisce per essere la sola cosa a cui riesci a pensare.
Il mio Zahir ha un nome e il suo nome è Esther.
Quando non ho avuto più niente da perdere, ho ottenuto tutto. Quando ho cessato di essere chi ero, ho ritrovato me stesso. Quando ho conosciuto l'umiliazione ma ho continuato a camminare, ho capito che ero libero di scegliere il mio destino. Non so se sono malato, se il mio matrimonio è stato solo un sogno che non sono riuscito a comprendere fintantoché è durato. So che posso vivere senza di lei, ma vorrei incontrarla di nuovo, per dirle ciò che non le ho mai detto mentre stavamo insieme: "Io ti amo più di me stesso". Se riuscirò a dirle queste parole, allora potrò andare avanti, in pace, perché questo amore mi ha redento.
L'amore è una forza selvaggia. Quando tentiamo di controllarlo, ci distrugge. Quando tentiamo di imprigionarlo, ci rende schiavi. Quando tentiamo di capirlo, ci lascia smarriti e confusi...


Bisogna sempre sapere quando una fase giunge alla fine. Concludere un ciclo, chiudere un uscio, terminare un capitolo: non importa come lo si definisca, ciò che conta è lasciare nel passato quei momenti di vita che sono finiti.


È meglio soffrire come ho già fatto in precedenza... È meglio che mi lecchi le ferite come ho fatto in passato.
Soffrirò giorno e notte, notte e giorno. E questo potrà durare settimane, mesi, forse anche un anno.
Finché una mattina, al risveglio, mi renderò conto che sto pensando a qualcosa di diverso, e capirò che il peggio è ormai passato. Il cuore è affranto, ma si riprendrà e riuscirà a scorgere ancora la bellezza della vita. È già successo in precedenza e accadrà di nuovo...

Ma mi ero reso conto che coloro che si dicevano maestri e detentori dei segreti della vita, che affermavano di conoscere le tecniche che avrebbero potuto dare a qualsiasi uomo la capacità di ottenere ciò che voleva, avevano ormai smarrito il legame con gli insegnamenti antichi. Percorrere il Cammino di Santiago, entrare in contatto con gente comune, scoprire che l'universo parla un linguaggio individuale - un linguaggio fatto di "segni" e di segnali - e che per capirlo basta guardare con la mente sgombra da retaggi e pregiudizi ciò che accade intorno a noi... tutto ciò mi ha fatto dubitare che l'occultismo fosse davvero la sola porta che consentisse di accedere a quei misteri. È molto importante prestare attenzione. Le lezioni arrivano sempre quando sei pronto. Se sarai attento ai segnali, apprenderai tutto ciò che ti è necessario per il prossimo passo.

da PensieriParole da PensieriParole
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sabato 20 settembre 2014

L'immortalità (M.Kundera)





Vivere: nel vivere non c'è alcuna felicità. 
Vivere: portare il proprio io dolente per il mondo. 
Ma essere, essere è felicità. 
Essere: trasformarsi in una fontana, in una vasca di pietra, nella quale l'universo cade come una tiepida pioggia



venerdì 19 settembre 2014

Alcune chicche da: L'insostenibile leggerezza dell'essere (M.Kundera)




È un amore disinteressato: Tereza non vuole nulla da Karenin. Non vuole nemmeno l'amore. Non si è mai posta quelle domande che torturano le coppie umane: mi ama? Ha mai amato qualcuna più di me? Mi ama più di quanto lo ami io? Forse tutte queste domande rivolte all'amore, che lo misurano, lo indagano, lo esaminano, lo sottopongono a interrogatorio, riescono anche a distruggerlo sul nascere. Forse non siamo capaci di amare proprio perché desideriamo essere amati, vale a dire vogiamo qualcosa (l'amore) dell'altro invece di avvicinarci a lui senza pretese e volere solo la sua semplice presenza.


Perché quell'edificio poggia sull'unico pilastro della sua fedeltà e gli amori sono come gli imperi: quando scompare l'idea su cui sono fondati, periscono anch'essi.


Due esseri che si amano, soli, isolati dal resto del mondo... è molto bello! Ma di che cosa parlerebbero tutto il tempo? Per quanto spregevole sia il mondo, essi ne hanno bisogno per potersi parlare.

Non certo la necessità, bensì il caso è pieno di magia. Se l'amore deve essere indimenticabile, fin dal primo istante devono posarsi su di esso le coincidenze, come uccelli sulle spalle di Francesco d'Assisi.


Non si può mai sapere che cosa si deve volere perché si vive una vita soltanto e non si può né confrontarla con le proprie vite precedenti, né correggerla nelle vite future.

Fare l'amore con una donna e dormire con una donna sono due passioni non solo diverse, ma quasi opposte. L'amore non si manifesta con il desiderio di fare l'amore [...] ma col desiderio di dormire insieme.


Quando parla il cuore non sta bene che la ragione trovi da obiettare.


L'amore comincia nell'istante in cui la donna si iscrive con la sua prima parola nella nostra memoria poetica.


Il tempo umano non ruota in cerchio ma avanza veloce in linea retta. È per questo che l'uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione.


Tereza sa che il momento in cui nasce l'amore si presenta così: la donna non resiste alla voce che chiama all'aperto la sua anima spaventata; l'uomo non resiste alla donna la cui anima presta orecchio alla sua voce.

Un dramma umano si può esprimere con la metafora della pesantezza. Diciamo, ad esempio, che ci è caduto un fardello sulle spalle. Sopportiamo o non sopportiamo questo fardello, sprofondiamo sotto il suo peso, lottiamo con esso, perdiamo o vinciamo. Ma cos'era successo in realtà a Sabina? Niente. Aveva lasciato un uomo perché voleva lasciarlo. Lui l'aveva forse perseguitata? Aveva cercato di vendicarsi? No. Il suo non era un dramma della pesantezza, ma della leggerezza. Sulle spalle di Sabina non era caduto un fardello, ma l'insostenibile leggerezza dell'essere.


Sabina aveva attorno a sé il vuoto. E se quel vuoto fosse stato la meta di tutti i suoi tradimenti? Fino ad allora, naturalmente, non se ne era resa conto e ciò era comprensibile: la meta che l'uomo persegue è sempre velata. La ragazza che desidera il matrimonio desidera qualcosa di cui non sa nulla. L'uomo che brama la gloria non ha alcuna idea di cosa sia questa gloria. Ciò che da un senso al nostro comportamento è sempre qualcosa che ci è totalmente sconosciuto. Anche Sabina non sa quale sia la meta che sta dietro il suo desiderio di tradire. L'insostenibile leggerezza dell'essere, è questa la meta?


Chi tende continuamente "verso l'alto" deve aspettarsi prima o poi d'essere colto dalla vertigine. Che cos'è la vertigine? Paura di cadere? ma allora perché ci prende la vertigine anche su un belvedere fornito di una sicura ringhiera? la vertigine è qualcosa di diverso dalla paura di cadere. la vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura.


La pesantezza, la necessità e il valore sono tre concetti intimamente legati tra loro: solo ciò che è necessario è pesante, solo ciò che pesa ha valore.


Non certo la necessità bensì il caso è pieno di magia. Se l'amore deve essere indimenticabile, fin dal primo istante devono posarsi su di esso le coincidenze.


La storia è leggera al pari delle singole vite umane, insostenibilmente leggera, leggera come una piuma che turbina nell'aria, come qualcosa che domani non ci sarà più.



domenica 31 agosto 2014

Da "Il Grande Gatsby"





E mentre la luna si levava più alta le inutili case cominciarono a confondersi gradualmente finché non mi resi conto dell'antica isola che spuntò davanti agli occhi dei marinai olandesi - un seno verde e fresco del nuovo mondo. I suoi alberi scomparsi, gli alberi che avevano ceduto il posto alla casa di Gatsby, avevano fatto da ruffiani bisbiglianti all'ultimo e immane dei sogni umani; per un attimo transitorio e incantato l'uomo doveva aver trattenuto il respiro alla presenza di questo continente, costretto a un'estatica contemplazione che né capiva né desiderava, faccia a faccia per l'ultima volta nella storia con qualcosa commensurato alla sua capacità di meraviglia. E mentre sedevo là a riflettere sul vecchio mondo sconosciuto, pensai alla meraviglia di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde sul molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per arrivare a questo prato azzurro, e il suo sogno gli doveva essere sembrato così vicino da non potergli più sfuggire. Non sapeva che l'aveva già alle spalle, da qualche parte nella vasta oscurità oltre la città, dove i campi bui della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, al futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggia di fronte a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa - domani correremo più forte, allungheremo ancora di più le braccia... e una bella mattina... Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.
da PensieriParole

martedì 1 luglio 2014

Caspar David Friederich - Der Wanderer über dem nebelmeer (Viandante sul mare di nebbia) 1818



Il "Viandante sul mare di nebbia" è un dipinto ad olio su tela di Casper David Friederich, ascrivibile alla scuola romantica.
L'artista tedesco è stato tra i primi ad allontanarsi dallo stile neoclassico, considerando l'arte come espressione di stati d'animo e sensazioni.
In particolare, la rappresentazione della Natura rappresenta per lui ed altri artisti romantici, il tema adatto per dar forma alla nascente sensibilità romantica.

Nel dipinto, in posizione centrale si staglia la figura di un uomo di spalle, con un bastone da passeggio in mano.
E' lui il vero soggetto dell'opera, oppure il mare di nebbia che si dipana avanti a lui? O forse entrambi, nel loro rapporto reciproco, cioè nel rapporto che si stabilisce tra i due elementi, la Natura ed il sentimento?

Si potrebbe interpretare anche come la metafora del futuro sconosciuto, che invoglia il soggetto a voler superare i propri limiti, sfidando la coltre di nebbia, per realizzare i propri ideali di scoperta.

Secondo un'altra interpretazione il viaggiatore sul precipizio lascerebbe intendere l'apparente dominio dell'uomo sulla Natura, e contemporaneamente l'irrilevanza dell'individuo su di essa.

Probabilmente tutte le interpretazioni sono corrette, nell'ottica della nuova concezione romantica della ricerca dentro la Natura, nelle sue espressioni più potenti (un massiccio di montagna, il vasto mare di nebbia, l'inestricabile foresta).
Il tutto rappresenta la poetica del sublime, un'idea del bello che si intuisce e si accende come moto dell'anima al cospetto della sua magnificenza e imponenza.

sabato 28 giugno 2014

Gustav Klimt - L'albero della vita (fregio per la Sala da Pranzo di Palazzo Stoclet, Bruxelles (1905-09)




Bellissima interpretazione

Gustav Klimt nel 1907 produsse un fregio, distinto in tre porzioni, lungo circa 7 metri per l'addobbo della sala da Pranzo di Palazzo Stoclet a Bruxelles.

Molteplici possono essere i significati del capolavoro, e non esplicitamente espressi dall'autore (come avviene invece per il Fregio della 9° Sinfonia di Beethoven esposto nel Museo della Secessione a Vienna)

Innanzitutto l'albero è un simbolo ancestrale, comune e ricorrente nella cultura di più popolazioni, come quella egizia, alcune antiche civiltà mesopotamiche, islamiche, Sudamericane, indiane, ebraiche, bizantina...
In particolare, nella cultura ebraica e cristiana, ove è rigidamente simmetrico,ha caratteristiche ben connotate e di elevato valore simbolico.
In generale rappresenta il significato biblico de "L'albero della conoscenza".

" Se voi conoscerete la Verità, la Verità vi farà Liberi"
L'Ignoranza è uno schiavo, la Conoscenza è libertà.
" Se noi riconosceremo la Verità, ritroveremo i Futti della Verità in noi stessi. 
Se ci uniremo con essa, essa produrrà il nostro perfezionamento
Vangelo di Filippo, Vers. 123

La struttura: mosaico di marmi, pietre dure, maioliche e corallo.
Il motivo centrale, nel pannello centrale è ciò che dà il nome al capolavoro.
E' il simbolo di tanti temi cari all'autore, che li riunifica in un'opera unica: motivi floreali, la figura femminile, la morte della vegetazione, la rinascita attraverso il ciclo delle stagioni, la rigenerazione, l'energia vitale.
Su di esso è appollaiato un uccello, che rappresenta la minaccia della Morte, contrastata e minimizzata dalla rigogliosità dei rami; oltre allo sviluppo della forma, è anche il fatto che sia d'oro, e quindi "inscalfibile" dall'uccello, che così viene degradato da minaccia in semplice fastidio.

I rami con i frutti si espandono ad unificare le figure del pannello di destra con quello di sinistra

Sul pannello di sinistra una (presunta) danzatrice da sola, rappresenta l'ATTESA.
Dipinta in stile "egizio" perché di profilo, e vestita di un vestito.
Solo il volto e le mani hanno un'espressività naturalistica, in contrasto con il resto del corpo che appare privo di tridimensionalità.
L' attesa è un atteggiamento tipico della figura femminile klimtiana.

Sul pannello di destra viene viene rappresentata la RICONCILIAZIONE, mediata dal celeberrimo "abbraccio". L'aureola attorno ai due protagonisti, in oro, conferisce al dipinto un carattere di preziosità.
"L'abbraccio", che ricorda il coevo "Il bacio",  e rielaborazione di un altro "abbraccio" presente nel "Fregio della Nona Sinfonia", appare nel suo naturalismo nel volto della donna con gli occhi chiusi, mentre il volto del compagno non si vede perché voltato di spalle.

Cielo e terra sono racchiusi nell'Albero della vita.
La donna in attesa, attende l'amato; attesa che termina con l'abbraccio, in cui ci sono l'inconscio, spirito e materia; L'abbraccio Invece l'abbraccio del'albero che riunisce l'incontro con le due figure ai lati, rappresenta l'amore, il bene che non ha confini di spazio e di tempo, il BENE oltre tutti gli egoismi.


Un capolavoro ASSOLUTO.


venerdì 27 giugno 2014

Sandro Filipepi detto il BOTTICELLI - Venere e Marte (London, National Gallery)


Il dipinto risale al 1492-93, ed è realizzato in tecnica mista su tavola.

Nel dipinto vengono rappresentati i due Dei e alcuni Satiri, distesi su una radura.
Marte giace esausto nella "piccola morte", quel profondo sonno che segue al rapporto sessuale, consumato con la Dea, Venere, Dea dell'amore e della bellezza: rapporto adulterino in quanto sposa di Vulcano.
Il sonno del Dio della Guerra è talmente profondo, dalla spossatezza, che nemmeno la tromba di uno dei satiri riesce a risvegliarlo, come neanche gli altri due della parte superiore che giocano con le sue armi.
Venere, per contro, è sveglia e persa nel contemplare le fattezze dell'amante, con lo sguardo malinconico. elemento, questo, di inquietudine nel dipinto, al pari del sonno particolarmente profondo di Marte.

Il significato, non attribuito dall'autore, potrebbe essere la forza "civilizzatrice" dell'amore nei confronti della forza e della violenza.

Una curiosità: il satiro nelle parte inferiore del dipinto pare stringa tra le mani un frutto di Datura antimonium, pianta allucinogena, la stessa utilizzata nei sabba delle streghe per gli effetti particolarmente afrodisiaci.

sabato 7 giugno 2014

Dante - Inferno, estratto Canto V, l'episodio di Paolo e francesca




«O animal grazioso e benigno 
che visitando vai per l’aere perso 
noi che tignemmo il mondo di sanguigno, 
      se fosse amico il re de l’universo, 
noi pregheremmo lui de la tua pace, 
poi c’hai pietà del nostro mal perverso. 
      Di quel che udire e che parlar vi piace, 
noi udiremo e parleremo a voi, 
mentre che ’l vento, come fa, ci tace. 
      Siede la terra dove nata fui 
su la marina dove ’l Po discende 
per aver pace co’ seguaci sui. 
      Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende 
prese costui de la bella persona 
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende. 
      Amor, ch’a nullo amato amar perdona, 
mi prese del costui piacer sì forte, 
che, come vedi, ancor non m’abbandona. 
      Amor condusse noi ad una morte: 
Caina attende chi a vita ci spense». 
Queste parole da lor ci fuor porte. 
      Quand’io intesi quell’anime offense, 
china’ il viso e tanto il tenni basso, 
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?». 
      Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, 
quanti dolci pensier, quanto disio 
menò costoro al doloroso passo!». 
      Poi mi rivolsi a loro e parla’ io, 
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri 
a lagrimar mi fanno tristo e pio. 
      Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, 
a che e come concedette Amore 
che conosceste i dubbiosi disiri?». 
      E quella a me: «Nessun maggior dolore 
che ricordarsi del tempo felice 
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore. 
      Ma s’a conoscer la prima radice 
del nostro amor tu hai cotanto affetto, 
dirò come colui che piange e dice. 
      Noi leggiavamo un giorno per diletto 
di Lancialotto come amor lo strinse; 
soli eravamo e sanza alcun sospetto. 
       Per più fiate li occhi ci sospinse 
quella lettura, e scolorocci il viso; 
ma solo un punto fu quel che ci vinse. 
       Quando leggemmo il disiato riso 
esser basciato da cotanto amante, 
questi, che mai da me non fia diviso, 
      la bocca mi basciò tutto tremante. 
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: 
quel giorno più non vi leggemmo avante». 
      Mentre che l’uno spirto questo disse, 
l’altro piangea; sì che di pietade 
io venni men così com’io morisse. 
      E caddi come corpo morto cade.

Ugo Foscolo - Alla sera


    Forse perché della fatal quïete
    Tu sei l'imago a me sì cara vieni
    O sera! E quando ti corteggian liete
    Le nubi estive e i zeffiri sereni,
    E quando dal nevoso aere inquïete
    Tenebre e lunghe all'universo meni
    Sempre scendi invocata, e le secrete
    Vie del mio cor soavemente tieni.
    Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
    che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
    questo reo tempo, e van con lui le torme
    Delle cure onde meco egli si strugge;
    e mentre io guardo la tua pace, dorme
    Quello spirto guerrier ch'entro mi rugge

il Finale di "Notre Dame de Paris" (Victor Hugo)




Trovarono tra tutte quelle orribili carcasse due scheletri, uno dei quali abbracciava singolarmente l'altro.
Uno di quegli scheletri, che era quello di una donna, era ancora coperto di qualche lembo di una veste di una stoffa che era stata bianca, ed era visibile attorno al suo collo una collana di adréazarach con un sacchettino di seta, ornato da perline verdi, che era aperto e vuoto. Quegli oggetti erano di così poco valore che di certo il boia non li aveva voluti. L'altro, abbracciava stretto questo, era lo scheletro di un uomo.
Notarono che aveva la colonna vertebrale deviata, la testa incassata tra le scapole e una gamba più corta dell'altra. D'altronde non aveva alcuna vertebra cervicale rotta ed era evidente che non fosse stato impiccato. L'uomo al quale era appartenuto era quindi giunto lì, e lì era morto. Quando fecero per staccarlo dallo scheletro che abbracciava, cadde in polvere.